Sabato e domenica scorsi, una decina di attivisti hanno distribuito migliaia di volantini e criticato a gran voce il Concorso ippico e la scelta della Città di Alessandria e degli sponsor di organizzare spettacoli che impiegano gli animali per sport o divertimento, contraddicendo quelle stesse norme che limitano l’ingresso in città ai circhi con animali. Molte le lettere di proteste inviate al sindaco e alle redazioni, qui ne riportiamo una.
Lettera di uno dei partecipanti ai presidi
Perché vedendo dei bellissimi cavalli che saltano ostacoli qualcuno dovrebbe pensare al concetto di sfruttamento? Perché l'accompagnamento narrativo degli altoparlanti, che richiamano note epiche di un rapporto millenario tra uomo e cavallo, dovrebbe essere interrotto dalle note dissonanti della protesta? Forse basterebbe indirizzare lo sguardo e la mente una spanna oltre lo spettacolo, per comprenderlo. Forse dovremmo capire più profondamente e senza compromessi di utilità i concetti di libertà, di amore e di rispetto. Chi alleva cavalli non lo fa per amore, lo fa per commercio. Il dare un prezzo alla vita (cedendola al miglior offerente), farne oggetto di compravendita, dovrebbe già di per se far riflettere sulla concezione degli animali come oggetti d'uso e di scambio. Ed è a partire da questa concezione che seguono a cascata le tante conseguenze che urtano profondamente quei principi che spesso invocheremmo come universali. Essendo oggetti, una volta esaurita la loro utilità agonistica o reddituale, i cavalli finiscono al mattatoio. Essendo oggetti, quando si feriscono in modo tale da compromettere la propria performance, i cavalli vengono uccisi, anche se potrebbero vivere ancora per molti anni. Sì, c'è qualche caso di clemenza, di pietà o forma di "riconoscenza" in cui viene "concesso" il diritto ad invecchiare. Ma sono rari come le eccezioni che confermano la regola. E la regola è produrre reddito. Se produci, vivi. Se no, muori, perché non servi. Perché sei solo un costo a perdere. Dov'è l'amore in tutto questo? Il rispetto? Semplice, non c'è. Ciò che sancisce le condizioni e la durata di una vita non è altro che uno strumento contabile che confronta le entrate e le uscite, i costi e i premi. Per non parlare poi della libertà, assente in varie forme. Da quella originaria del domare ed addestrare, che per definizione espropria un cavallo della propria propensione ad agire da essere libero nato in natura, del far muovere e saltare a piacimento del "cavaliere" (il salto ad ostacoli è un'idea degli uomini, non certo una scelta degli animali), a quella dei cavalli da calesse, obbligati a tirare pesi in tutte le condizioni, sotto il sole, col caldo a 35 gradi, con la rifrazione dell'asfalto, con un ferro in bocca che dice di andare ora a destra, ora a sinistra, ora di fermarsi, ora di riprendere a girare, a voglia e discrezione dell'uomo che li ha imbrigliati e dei passeggeri (questi ultimi ovviamente sì, liberi... e seduti). Se da prima si è chiarito il ruolo dell'amore e del rispetto in tutto questo, forse ora si capirà anche il concetto di sfruttamento. Vale a dire il togliere a qualcuno la propria libertà di agire, vivere ed esistere secondo la propria propensione naturale, subendo, condizionati, finalizzati ed asserviti a decisioni altrui (per poi, alla fine, morire). E quando questo mondo di sfruttamento si radica, si da per scontato, si accetta e si promuove, nasce una cultura. La cultura dello sfruttamento che sta dietro agli spettacoli ippici e a tanti altri usi analoghi degli animali. In tutto questo, ognuno ha la facoltà di scegliere. Scegliere se accettare questo tipo di cultura o se contrapporvi una più alta. Quella del rispetto della libertà di ognuno in quanto tale e non in quanto asservita agli interessi di parte. Vorrei sperare che quest'ultima venga accolta come riferimento culturale non solo dalla maggior parte delle persone, ma anche dalle istituzioni di Alessandria, che in questa circostanza hanno voluto e scelto di preferire la prima.